Le Kimberliti

Le kimberliti sono rocce vulcaniche ultramafiche ricche in MgO (>25 wt%) e in volatili (H2O, CO2, F), e fortemente arricchite in elementi come K, Na, Ba, Sr, Ti, Zr, Nb e P. Più semplicemente, le kimberliti, sono un gruppo di rocce ibride che comprende rocce ricche in volatili (prevalentemente CO2), rocce potassiche e rocce ultrabasiche caratterizzate da una tessitura fortemente disequigranulare, data da grandi cristalli immersi in una matrice a grana fine. La prima kimberlite venne scoperta da Vanuxen nel 1837 a Ludlowiville vicono Ithaca, nello stato di New York, in America; il termine kimberlite però fu introdotto solo nel 1887 da Lewis, per descrivere le rocce diamantifere della regione di Kimberly, in Sud Africa.

Classificazione

A causa della loro ampia variazione tessiturale, mineralogica, petrografica e geochimica, sono state proposte nel tempo numerose classificazioni:

1. Classificazione basata sulle variazioni tessiturali: questa classificazione fu proposta da Clement e Skinner, (1979), ed è basata sulle caratteristiche tessiturali, e suddivide le kimberliti in tre facies: facies craterica, di diatrema e ipoabissale.

Facies craterica:
La morfologia superficiale di un camino kimberlitico non eroso (Fig.1), è caratterizzata da un cratere, ampio fino a 2 km, il cui fondo può essere situato a diverse centinaia di metri al di sotto del piano campagna. Il cratere è generalmente più profondo nella parte centrale. Attorno al cratere si ha un anello di materiale tufaceo (tuff-ring) relativamente basso (circa 30 m o meno), se comparato al diametro del cratere.

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Fig.1: Facies Craterica di un camino Kimberlitico. Immagine modificata da Mitchell 1986



La facies craterica è caratterizzata da due tipi di rocce: depositi piroclastici e depositi epiclastici (rimaneggiati da fenomeni atmosferici).

Rocce piroclastiche: Le rocce piroclastiche costituiscono il tuff-ring attorno al cratere e si rinvengono all’interno dello stesso. Glk unici Tuff-ring preservati che si conoscono sono quelli delle kimberliti di Igwissi (Fig.2) in Tanzania e quello di Kasami in Mali (Africa). L’altezza dei tuff-ring varia da 1-4 m fino ad un massimo di 15-50 m. I depositi che li costituiscono sono comunemente ben stratificati, vescicolati e carbonatati. Dallo studio dei tuff-ring di Igwissi Hills e Kasami è stato possibile distinguere tre unità, che dal basso verso l’alto sono:

1. Tufi fortemente stratificati.
2. Depositi piroclastici grossolani poco stratificati.
3. Brecce basali.

Rocce epiclastiche: questi depositi rappresentano il materiale piroclastico, sia del tuff-ring che del cratere, rimaneggiato all’interno del lago che si forma nel cratere. Sono depositi complessi che ricordano depositi lacustri e le conoidi alluvionali. La grana di tali depositi aumenta con la distanza dai bordi del cratere. Spesso si rinvengono fossili. Talvolta i depositi epiclastici risultano completamente sostituiti da calcedonio, testimonianza di fasi fumaroliche, associate alle fasi finali dell’attività vulcanica.

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Fig.2: Cratere kimberlitico di Igwissi Hills con Tuff-ring. Immagine tratta da The earth story.



Facies di Diatrema: I diatremi (o camini) kimberlitici hanno una profondità di circa 1-2 Km, generalmente con forma a carota (che tende a restringersi con la profondità) e con sezioni circolari o ellittiche in superficie (Fig.3). La zona del diatrema è caratterizzata da frammenti vulcanoclastici, xenoliti e altro materiale, strappato a varie profondità durante la risalita del magma. Alcune caratteristiche dei diatremi sono: presenza di frammenti angolosi di rocce incassanti; materiale juvenile frammentato; xenoliti di rocce incassanti che si rinvengono fino a 1000 m di profondità; lapilli accrezionali; matrice composta da diopside, serpentino e flogopite; nessun effetto termico sulle rocce incassanti, indice che la cristallizzazione nel diatrema avviene a bassa temperatura.

Facies Ipoabissale: I depositi ipoabissali (Fig.3) si formano per la cristallizzazione, ad alta temperatura, del magma kimberlitico ricco in volatili. Comunemente si hanno tessiture ignee e la totale assenza di frammentazione. Alcune caratteristiche dei depositi ipoabissali sono: presenza di calcite e serpentino nella matrice; i frammenti rocciosi hanno subito metamorfismo termico e presentano spesso spesse corone di reazione o zone concentriche a metamorfismo termico variabile, presenza di tessiture disequigranulari.

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Fig.3: Morfologia di un camino kimberlitico in cui sono rappresentate le tre facies, quella craterica, quella di diatrema e quella ipoabissale. Immagine modificata da Mitchell, 1986.



Classificazione basata sulle variazioni composizionali: Questa classificazione, introdotta da Smith (1983), suddivide le kimberliti in due gruppi: kimberliti del gruppo I e kimberliti del gruppo II.

Kimberliti del gruppo I: a questo gruppo appartengono le "classiche kimberliti": rocce vulcaniche ultrabasiche povere in silice (SiO2 < 45 wt%), ricche in potassio (K/Na > 1), ricche in volatili (CO2) e caratterizzate dalla presenza di grandi cristalli di olivina, ilmenite, granato, pirosseni, flogopite, immersi in una matrice a grana molto fine ricca in olivina, serpentino, carbonati e altre fasi accessorie. I cristalli possono raggiungere dimensioni fino a 20-30 cm, e generalmente sono rappresentati da xenocristalli, derivanti dal disfacimento delle rocce mantelliche, attraversate dal magma kimberlitico in risalita verso la superficie.

Kimberliti del gruppo II (dette anche orangeiti): queste rocce furono originariamente definite come "kimberliti micacee" o "lamprofiri kimberlitici". Sono rocce ultrapotassiche (K/Na > 3), peralcaline ([K + Na]/Al > 1) e ricche in volatili (H2O), caratterizzate dalla presenza abbondante di cristalli di flogopite e olivina, immersi in una matrice a grana fine ricca in flogopite, olivina, diopside, spinello, perovskite e altre fasi accessorie. Sono rocce legate più ai lamprofiri che alle kimberliti.

Distribuzione delle kimberliti

Le kimberliti si rinvengono in tutti i continenti, unicamente in zone cratoniche (Fig.4). Sulla base della loro distribuzione, Clifford (1966), ha osservato che le kimberliti economicamente rilevanti, si rinvengono più frequentemente nei cratoni Pre-Cambriani, in particolare in quelli di età Archeana (più vecchi di 2.5 Ga). Questa importante osservazione ha portato alla così detta "legge di Clifford", utile per individuare nuovi depositi di diamanti, e limitare le prospezioni unicamente alle kimberliti affioranti in cratoni Archeani. Non si ha la presenza di kimberliti diamantifere in rocce crostali più giovani di 1.6 Ga; questa particolare caratteristica, suggerisce probabilmente, uno stretto legame tra la presenza di diamanti, e l’età del mantello sottocrostale. Le kimberliti, rispetto alle rocce incassanti, sono molto più giovani; la maggior parte ha età Cretacee e Paleozoiche. Si hanno poi esempi anche di kimberliti nel Neogene (alcune datate 22 Ma, in Australia).

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Fig.4: Distribuzione mondiale delle kimberliti.



Modelli di messa in posto delle kimberliti

Negli anni sono stati proposti numerosi modelli di messa in posto delle kimberliti, che includono: 1) modello esplosivo, 2) modello della fluidizzazione, 3) modello idrovulcanico e 4) modello della "embryonic pipe".

1) Modello esplosivo
La natura vulcanica delle kimberliti fu riconosciuta già da Lewis (1887) e da Bonney (1899). A seguito delle ipotesi di Geikie (1902), per spiegare l’origine di diatremi simili in Scozia, fu ipotizzato che l’origine delle kimberliti fosse legata a violente eruzioni vulcaniche (Wagner 1914). I diatremi kimberlitici furono quindi interpretati come camini vulcanici da cui sarebbe eruttato, ad una profondità di circa 2 km, il magma kimberlitico. Secondo questa teoria, l’origine di tali esplosioni è legata al rapido rilascio di grandi quantità di volatili in profondità.Tale modello prevede la risalita dal mantello del magma kimberlitico lungo sistemi di fratture o faglie, fino a livelli crostali molto bassi, e la successiva stagnazione in camere magmatiche (dette camere magmatiche intermedie). La cristallizzazione all’interno delle camere magmatiche favorirebbe l’ulteriore arricchimento in volatili del magma, fino a che, raggiunta una pressione sufficiente, erutterebbe in maniera violenta e improvvisa. La ripetizione di tali maccanismi produrrebbe intrusioni multiple o diatremi spazialmente molto vicini.

Tale teoria è stata largamente criticata. Secondo molti autori infatti non spiegherebbe l’origine delle kimberliti, in quanto: 1. Non si ha nessuna evidenza, attorno ai diatremi kimberlitici, di sollevamenti crostali o sistemi di fratture concentrici, tipici a di sopra di intrusioni magmatiche poco profonde; 2. Non si ha nessun centro esplosivo in profondità, né alla base del diatrema né tantomeno nella zona ipoabissale; 3) le intense prospezioni geologiche, ma soprattutto gli intensi lavoro di scavo di molte kimberliti (per la ricerca di diamanti), non ha prodotto nessuna evidenza di camere magmatiche a bassa profondità; 4) la distribuzione degli xenoliti, e la preservazione delle originarie strutture, non è in linea con un evento esplosivo violento.

2) Modello della fluidizzazione
Questa teoria fu proposta da Dawson (1962, 1967a, 1971, 1980). Secondo questo modello, il magma kimberlitico risalirebbe dal mantello, attraverso sistemi di fratture, fino a circa 2-3 km dalla superficie. A questo punto, l’espansione adiabatica del magma ricco in volatili determinerebbe una violenta esplosione; il condotto vulcanico poi sarebbe soggetto ad un allargamento a causa della fluidizzazione del magma kimberlitico (un mix di magma, gas e rocce incassanti frantumate).

Anche questo modello è stato largamente criticato, e rigettato da chi ipotizza che le kimberliti si siano originate per eventi idrovulcanici. Le principali evidenze a sfavore di tale teoria sono: è molto improbabile che grandi quantità di gas possano liberarsi ed esplodere da un magma in lento raffreddamento nella crosta. La rapida vescicolazione del magma può avvenite solo a livello crostali davvero poco profondi, inoltre queste intrusioni hanno un volume così ridotto che è poco probabile che possano produrre quantità sufficienti di volatili per generare un condotto vulcanico di 2-3 km. Non viene specificato come mai una parte del magma kimberlitico libererebbe improvvisamente tutti i volatili, mentre altre porzioni (dello stesso sistema kimberlitico) no. Gli xenoliti presenti nelle kimberliti hanno una morfologia angolosa, che non è in accordo con una lunga e violenta fluidizzazione, che produrrebbe invece xenoliti arrotondati e abrasi, inoltre sono comunemente concentrati in particolari livelli e non disseminati in tutto il corpo kimberlitico.

In definitiva, la fluidizzazione è stata largamente accettata come meccanismo della formazione superficiale del diatrema, ma si ritiene che non giochi nessun ruolo fondamentale nella genesi dei camini kimberlitici.

3) Modello idrovulcanico
L’idrovulcanismo indica i processi vulcaniche che avvengono quando si ha l’interazione tra acqua (acquiferi, acqua meteoriche ecc.) e magma. Questa teoria fu proposta da Lorenz (1999). Secondo questo modello, il diatrema kimberlitico, e il maar sommitale derivino dall’interazione tra il magma kimberlitico e una sorgente di acqua. Questa interazione darebbe origine a violente esplosioni che causerebbero la frammentazione del magma, e delle rocce circostanti.

Questa teoria spiegherebbe numerose caratteristiche delle kimberliti come: 1. I diatremi e i maar kimberlitici sono legati a fratture lineri; 2. Molti diatremi kimberlitici sono collegati a sistemi di dicchi che si intersecano con le linee di frattura. 3. I dicchi di alimentazione sono impostati su fratture preesistenti; 4. I diatremi si impostano in rocce, o sequenze di rocce sedimentarie, ad alta permeabilità e porosità e sono invece meno comuni in rocce a bassa permeabilità; 5. I diatremi kimberlitici si rinvengono in gruppi, così come i moderni maar, che sono legati a sistemi di fratture molto estesi; 6. La presenza di depositi epiclastici indica che in origine il cratere sommitale era riempita di acqua; 7. La presenza di blocchi di materiale epiclastico, nelle parti profonde del diatrema, indica che il lago sommitale poteva essere interessato e coinvolto in eruzioni successive.

4) Modello della "embryonic pipe"
Data la complessità dei diatremi kimberlitici, Clement (1979, 1982), ha ipotizzato che non esiste un unico modello capace di spiegare tutte le caratteristiche delle kimberliti, e che la loro origine è probabilmente legata all’interazione di più processi. Questo modello cerca di delineare e spiegare la genesi e la risalita del magma kimberlitico, dal mantello fino alla superficie.

Secondo questo modello (Fig.5), i magmi kimberlitici in risalita dal mantello, a causa della diminuzione di pressione, svilupperebbero una zona di fluidi ad alta pressione, localizzata nella parte sommitale e laterale dell’intrusione kimberlitica. Questa zona ad alta pressione sarebbe capace di penetrare e frantumare le rocce sovrastanti, favorendo la risalita del magma stesso. L’avanzamento di questo fronte di fluidi sarebbe seguito poi dal magma, che riempirebbe gli spazi creati, incorporando i frammenti di rocce disgregati dai fluidi in risalita. Le zone ipoabissali dei camini kimberlitici sarebbero il risultato del cambiamento di condizioni bariche dei fluidi. A bassi livelli i fluidi sarebbero facilmente dispersi, permettendo al magma più in profondità di riempire i sistemi di fratture preesistenti, formando intrusioni kimberlitiche a struttura massiva.

Secondo Clement (1979, 1982), quando il magma raggiunge una profondità di 300-400m, a causa dell’abbassamento di pressione, e dell’eventuale interazione con acquiferi superficiali, genererebbe una violenta eruzione. La zona di degassamento migrerebbe man mano verso il basso (Fig.6), favorendo il progressivo allargamento del condotto vulcanico, e favorendo il mescolamento caotico di rocce incassanti, porzioni kimberlitiche ipoabissali, brecce sommitali e depositi vulcanici craterici. Questo processo avrebbe durata molto limitata, come indicato dalla morfologia spigolosa dei vari xenoliti. La ripetizione successiva di questo processo sarebbe capace di generare kimberliti estremamente complesse.

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Fig.5: Modello della "embryonic pipe". In rosso la zona brecciata dovuta ai fluidi ad alta pressione che precede la risalita del magma kimberlitico (in verde). Immagine modificata da Mitchell, R. H. (1991).



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Fig.6: Fasi dello sviluppo del diatrema, secondo le ipotesi di Clement (1982); la fese della "embryonic pipe" è seguita da fenomeni di fluidizzazione (A), o idrovulcanismo (B). Immagine modificata da Mitchell, R. H. (1991).



Petrogenesi

Nonostante le numerose, approfondite e vaste ricerche, l’origine delle kimberliti resta a tutt’oggi molto controversa e poco chiara. Le kimberliti sono associate comunemente a rocce mafiche e contengono comunemente xenoliti mantellici, indicando che la loro origine è strettamente legata al mantello profondo. Questi xenoliti danno importanti informazioni sulla zona di origine delle kimberliti e sulla composizione-struttura del mantello al di sotto dei cratoni continentali (Pearson et al., 2004). Le kimberliti sono un gruppo di rocce sottosature in silice composizionalmente molto vasrto, che comprende rocce come le melilititi, i lamprofiri e le nefeliniti (Fig.7).

Le tre principali ipotesi sulla genesi delle kimberliti sono:

i. Le kimberliti sono un mix di magma ankeritico ricco in CO2-H2O e contaminato da materiale crostale (Dawson, 1967).
ii. Le kimberliti derivano dalla fusione parziale del mantello in condizione di alta pressione (Wagner, 1929; Holmes, 1936).
iii. Le kimberliti derivano dalla differenziazione ad alta pressione di un magma mafico (proto-kimberlite) a seguiti di ripetuti processi di cristallizzazione frazionata (Williams, 1932; O'Hara, 1968).

La presenza di particolari xenoliti all’interno delle kimberliti, e i dati ottenuti da numerosi esperimenti, sembrerebbe favorire l’ipotesi numero 3. L’iniziale magma proto-kimberlitico sembrerebbe essere un fluido ricco in cloro e carbonato, a basso contenuto di SiO2. Durante la risalita nel mantello, interagirebbe con esso, assimilando progressivamente olivina e altri minerali mantellici, variando man mano la sua composizione, fino a raggiungere quella tipica delle kimberliti. Tuttavia, nonostante i progressi scientifici, determinare l’esatta composizione del magma proto-kimberlitico, e la sua successiva evoluzione, rimane un problema ancora irrisolto e molto dibattuto.

Kimberliti e diamanti

Le kimberliti sono famose soprattutto per il fatto che sono tra le poche rocce che contengono quantitativi spesso economicamente molto importanti di diamanti. In tutto il mondo sono state scoperte più di 6400 camini kimberlitici, e di questi circa 900 sono diamantiferi, di cui 30 economicamente molto importanti. Nonostante i diamanti si rinvengano nelle kimberliti, e nelle rocce associate ad esse, la loro origine è più strettamente legata agli xenoliti mantellici. Per potersi formare, i diamanti necessitano di altissime pressioni e temperature, tipiche del mantello profondo. I dianti si formano comunemente nelle eclogiti, al contatto tra granato e pirosseno. I diamanti si formano anche nelle peridotiti mantelliche, che possono essere prese in carico dal magma kimberlitico in risalita. A differenza delle eclogiti (più resistenti), le peridotiti tendono a frammentarsi e disgregarsi; ciò determina la dispersione dei diamanti nel magma kimberlitico. I diamanti presenti nelle kimberliti, dal punto di vista petrografico sono degli xenocristalli.

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Fig.7: Sezione schematica di un cratone Archeano. Il basso gradiente geotermico determina la risalita del campo di stabilità dei diamanti, nella zona centrale del cratone. I diamanti che si formano nel mantello, si rinvengono essenzialmente nelle peridotiti e nelle eclogiti; queste rocce possono essere prese in carico da magmi kimberlitici (K), da magmi kimberlitici del gruppo II (orangeiti, O), rari lamprofiri (L). le melititi (M) si originano per processi di fusione parziale dell’astenosfera, e in base alla loro profondità di origine, possono contenere diamanti. Le nefliniti (N), e le carbonatiti associate, si formano in contesti più superficiali, in zone di rift, e non contengono diamanti. Immagine tratta da Mitchel 2005.



I diamanti che si formano nel mantello, possono rimanere stabili solo alle condizione di temperatura e pressione tipiche del mantello. Tuttavia, se la risalita degli xenoliti all’interno del magma kimberlitico è sufficientemente veloce, i diamanti possono rimanere in uno stato metastabile, e quindi preservarsi anche alle condizione termo bariche superficiali. Se invece la risalta non è sufficientemente veloce, i diamanti si trasformeranno in grafite. Sono nelle zone al di sotto dei cratoni, i diamanti possono rimanere stabili a pressioni e temperature minori. Questo è dovuto al basso gradiente geotermico tipico delle zone al di sotto dei cratoni (Fig.7).

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Kimberlite ricca in carbonato, Somerset Island, Canada. Immagine tratta da Andrea Giuliani.



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Kimberlite proveniente da Bellsbank, zona nord di Kimberley, Sud Africa. Immagine tratta da James St. John.



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Kimberlite proveniente dalla Premier Kimberlite Pipe, Cullinan, Sud Africa. Immagine tratta da James St. John.



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Kimberlite ipoabissale. Immagine tratta da Reddit.



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Contatto tra una kimberlite ipoabissale, e uno slate (nero). Masontown, Pennsylvania, USA. Immagine tratta da Wyoming Diamond and Gemstone Province.



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Breccia di diatrema. Lake Ellen, Michigan, USA. Immagine tratta da Wyoming Diamond and Gemstone Province.



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Kimberlite tuffisitica (tufacea). Iron Mountain district, Wyoming, USA. Immagine tratta da Wyoming Diamond and Gemstone Province.



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Grosso xenocristallo di Cr-diopside (verde), Sloan, Colorado, USA. Immagine tratta da Wyoming Diamond and Gemstone Province.



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Diamante in una kimberlite. Bultfontein Mine, Kimberley, Baard District, Sud Africa. Immagine tratta da From e-rocks.



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Diamante in una kimberlite. Bultfontein Mine, Kimberley, Baard District, Sud Africa. Immagine tratta da From e-rocks.



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Diamante ottaedrico (6.5 mm) in una kimberlite. Immagine tratta da Geology for investors.





Bibliografia



• Brown, R. J., Manya, S., Buisman, I., Fontana, G., Field, M., Mac Niocaill, C., & Stuart, F. M. (2012). Eruption of kimberlite magmas: physical volcanology, geomorphology and age of the youngest kimberlitic volcanoes known on earth (the Upper Pleistocene/Holocene Igwisi Hills volcanoes, Tanzania). Bulletin of volcanology, 74(7), 1621-1643.
• Mitchell, R. H. (1991). Kimberlites and lamproites: primary sources of diamond. Geoscience Canada, 18(1).
• Mitchell, R. H. (2013). Kimberlites: mineralogy, geochemistry, and petrology. Springer Science & Business Media.
Nimis, P. (2009). Diamonds, Kimberlites and Lamproites. Geology Vol. IV, 154.